Pasquale Fameli

"ARCAICHE COSTRUZIONI IMMAGINARIE"

L’ipotesi di una coerenza diacronica nel percorso di un artista trova nell’opera di Bruno De Angelis (1953) un esempio ideale. È la coerenza che scaturisce da una mentalità progettuale, costruttiva, dedita alla rielaborazione continua di schemi e di moduli utili a organizzare lo spazio dell’opera. Dai primi lavori documentati di De Angelis quali In principio (1971) o Io dentro il fuoco (1972) emerge una sorta di conflitto tra l’animosità di un segno graffiante e la certezza di una campitura ben delineata: è il dissenso di una lacerazione vibrante, mossa ancora da lontani echi informali, verso l’affermazione di un criterio razionale pronto a prendere il sopravvento. In particolare, il titolo della seconda opera menzionata, Io dentro il fuoco, è indicativo della proiezione oggettivante che, ancora ai tempi dell’Informale, portava a identificare l’opera con l’artista, inteso non come autore, ma come uomo, come individuo a confronto con se stesso. Essere ‘dentro il fuoco’ è infatti la metafora di una condizione esistenziale accesa di tormento che De Angelis fronteggia con una riquadratura elementare, primitiva, utile a circoscrivere lo spazio dell’azione e quindi a facilitarne la gestione interna.

Il ribaltamento dal corpo ‘vissuto’ a quello ‘progettuale’ comporta una radicale riorganizzazione dello spazio: rettificato ogni residuo gestuale, la superficie si manifesta nella sua tersità omogenea, rivelando la possibilità di una riquadratura minima, secondo la lezione di Josef Albers, oppure di una ripartizione ritmica elementare, come per esempio quelle del primo Ellsworth Kelly. Per certi versi, si potrebbe dire che De Angelis compia una sorta di percorso inverso a quello svolto anni prima in pittura da Yves Klein, passato dalla serenità meditativa del monocromo blu alla gestualità convulsa della Peinture de feu. La necessità del ritmo e della scansione segna però l’ingresso di un nuovo problema, quello di verificare i propri mezzi, le proprie capacità di gestione dello spazio. Molti artisti, al di qua e al di là dell’oceano, si sono posti in quegli anni tale problema, riprendendo la questione laddove l’aveva lasciata l’avanguardia storica, ma con un atteggiamento completamente rinnovato. Se i concretismi di inizio Novecento si caratterizzavano per una stratificazione differenziata di motivi e di significati antropologici, teosofici o esistenziali, le soluzioni aniconiche della seconda metà del secolo riaffermano il ritmo e la forma come valori autosufficienti, prive di rimandi ulteriori. Per De Angelis, come per molti altri artisti degli anni Sessanta e Settanta, il ritmo e la forma non sono più le proiezioni di processi eidetici, ma gli esiti di procedimenti tecnici metodici e oculati atti a valorizzare la testura della superficie. L’opera viene a coincidere con i suoi elementi costitutivi, trova la sua ragion d’essere nell’evidenziazione delle sue relazioni interne.

In virtù di queste caratteristiche, la ricerca condotta da De Angelis nei primi anni Settanta può essere accostata a quelle della Systemic Painting statunitense, che si basa sulle potenzialità iterative e ricorsive di pattern elementari. La pittura sistemica adotta infatti procedure costruttive dai risultati prestabiliti finalizzate alla tautologica enunciazione del loro principio ordinatore. Semplicemente osservando l’opera è possibile individuare tutti i suoi criteri costruttivi, così che la ripetizione restituisca il significato alla sintassi. L’organizzazione ritmica dei dipinti di De Angelis risponde a questi stessi obiettivi esercitando il potenziale serializzante di un modulo geometrico al fine di impedire la rottura del sistema. L’insieme dell’opera non fa altro che denunciare i fondamenti della propria regolarità in tutte le sue articolazioni. È ciò che De Angelis ha dimostrato anche nell’ambito di Pittura Museo Città, una delle prime mostre organizzate alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna subito dopo l’inaugurazione della sua sede nel quartiere fieristico, nel 1975. La mostra radunava vari artisti aventi quasi tutti lo studio in Palazzo Bentivoglio e dimostrava il radicamento cittadino della Pittura Analitica, emersa appena due anni prima nella vicina Ferrara con la mostra Un futuro possibile. Nuova Pittura, a cura di Giorgio Cortenova, presso il Centro Attività Visive di Palazzo dei Diamanti, che includeva già alcuni degli artisti di Pittura Museo Città (ossia Maurizio Bottarelli, Vittorio Mascalchi e Vincenzo Satta, maestro dello stesso De Angelis).

La necessità di superare i limiti fisiologici della ricerca analitica, ossia la ripetitività e la monotonia dei suoi risultati formali, porta De Angelis a stabilire un più aperto confronto con l’architettura, disciplina scaturita dall’esigenza umana di organizzare lo spazio della vita quotidiana, e con il design. Nasce così la ‘Scultura candita’, presentata per la prima volta a Milano presso la galleria Il luogo di Gauss nel 1982: una pratica di elaborazione oggettuale caratterizzata da volumetrie policrome, dinamiche e asimmetriche, che dichiarano una spiccata artificiosità. Sono oggetti che si distinguono per le forme sinuose e per le tinte caramellate, in dialogo con le rinate soluzioni del Secondo Futurismo. È la risposta individuale a un momento di evoluzione dialettica della pittura aniconica italiana verso lo spazio fisico, documentato dalla mostra Pittura-Ambiente organizzata da Francesca Alinovi e Renato Barilli al Palazzo Reale di Milano nel 1979, mostra che includeva anche Giorgio Zucchini, un altro artista di Palazzo Bentivoglio presente in Pittura Museo Città. Quella di De Angelis è tuttavia un’architettura de-funzionalizzata e miniaturizzata che estenua l’ipotesi, già emersa nella fase sistemico-analitica, di oggettualizzare la superficie dipinta, di conferirle spessore e volume. A rimarcare la valenza fisica di tali prodotti torna utile anche l’impiego di alcune fonti luminose atte a estendere le loro forme sui piani verticale e orizzontale della parete e del pavimento. Come nota Cortenova nel 1981, infatti, «Bruno De Angelis complica i suoi oggetti-architetture con l’intervento della luce elettrica. Altre volte strizza l’occhio alla funzionalità e li propone come mensole, che debbono però rimanere incredute e che sembrano risolversi in un mondo di cartapesta, in una sorta di monumento ludico, ricco di contaminazione e carico di un’energia invasiva che occupa spazio e genera tensione».

La ‘svolta iconica’ dell’arte degli anni Ottanta ha rimesso in gioco una serie di valori che erano stati espunti dalla precedente stagione creativa, improntata alla ‘smaterializzazione dell’oggetto artistico’. Il ritorno alla materialità dell’opera ha comportato, tra le altre cose, un ripensamento di valori artistici antichi, originari, fondativi. L’approccio alla primarietà, ossia l’insieme dei valori essenziali della natura e della vita organica, assume una valenza ‘magica’: non più esibizione diretta della materia, ma rielaborazione immaginifica della stessa. Di fronte alla delegittimazione del sapere propria della ‘condizione postmoderna’, il mito conquista una nuova centralità, alimentando poetiche volte all’evasione in un ‘altrove’ senza tempo. De Angelis dirige ora la sua ricerca su questa via, lontana dalle cromie della fase immediatamente precedente, rielaborando antichi motivi architettonici e frammenti archeologici in comuni materiali industriali: La seduzione (1984), in compensato e plexiglas, per esempio, riprende le figure recumbenti del Sarcofago degli Sposi conservato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, mentre Il banchetto del faraone (1988-90), in poliuretano espanso incollato a strati, richiama i moduli costruttivi delle mastabe egizie.

Le più recenti proposte di De Angelis si riconnettono a questa fase ‘mitica’ riesercitando però l’ossessività modulare della fase sistemica. Grande Persepoli (2018), insieme alle opere del ciclo intitolato Casa delle fondamenta del cielo e della terra (2018), ripropone il motivo geometrico già apparso in Verso Persepoli (1988-90): si tratta della sezione iniziale della scalinata del Palazzo di Persepoli, ricavata a intaglio da pannelli di cartone cuoio stratificati su solidi supporti di compensato e colorati all’anilina. L’effetto plastico è quello di un morbido bassorilievo che estenua il pattern iniziale e lo sottopone a una rettificazione omogeneizzante utile ad annullare le sbeccature del modello originale. Le opere del ciclo Sketches of Babilonia (2020) ripropongono il medesimo motivo, ma lo vivificano mediante la combinazione alternata di colori primari e secondari. Sono incastri ordinativi scaturiti dall’esercizio inesausto di una progettualità compulsiva e insaziabile che tuttavia sconfessa categoricamente il criterio cartesiano della perpendicolarità. Il motivo della diagonale, già apparso nella prima fase del percorso di De Angelis, continua a esercitare in queste opere la forza di una flessione, di una tensione in avanti, che accelera le geometrie, le rende corsive: ogni immagine sembra quasi consegnarsi alla successiva, affermare una sua propria fuggevolezza, come per evadere dal tempo presente. Si noti, infatti, che la diagonale di De Angelis non è quella ‘lirica’ descritta da Rudolf Arnheim, ma è il simbolo di una mancanza di equilibrio, di una precarietà esistenziale, animata così da turbamenti soggettivi. Queste immagini, contese tra l’arcaicità del pattern e la prosaicità dei materiali, si pongono quasi come emanazioni di un paradosso, istanze ipotetiche di un futuro antico pronto a surrogare ogni contingenza. È l’evocazione di un tempo imprecisato che emerge anche dal titolo di un altro ciclo di opere incentrato sulla diagonale, Fortezza dell’eternità (2021), in cui i ritmi architettonici dell’antica Ninive sono ridotti a compartimentazioni di fitte zigrinature incise nel buio denso del bitume.

Dal confronto con l’architettura scaturiscono anche i Libri (2020) e le Tavole (2020) ricavate dalle piegature del cartone, secondo una pratica che ricorda quella di un altro suo compagno di strada, Gabriele Partisani, declinata però in tutt’altro orientamento: se quest’ultimo, infatti, puntellava e piegava pannelli di cartone ondulato per rivelare la struttura fisica del supporto stesso, De Angelis lo fa per ottenere cartigli, papiri e pergamene che custodiscono verità inintelligibili. Nel loro dispiegarsi, queste tavole monocrome assumono inoltre la conformazione di antichi templi scavati nella roccia, come quelli di Petra o di Kailasa, riaffermando la necessità di un confronto con le architetture di un remoto passato. Sono istanze di una metafisica semplificata che, attraverso l’instabilità percettiva di una figura ambivalente, si fanno supporti ideali di una scrittura potenziale: la forma di un edificio si fa sineddoche di una costruzione concettuale e quindi diventa ‘edificio’ anche nel senso figurato della parola, quale insieme di argomentazioni, qui, soltanto alluse. Alle sagome di varie opere degli anni Ottanta come La seduzione, già citata, si richiamano poi i profili degli amanti e dei custodi solitari che solcano silenziosi le aree intorno a quegli stessi edifici, tracciando altre diagonali: sono gli architetti di un mondo distopico che varia all’infinito, guardiani muti di segreti irrivelabili che osservano, od orientano, tutte le combinazioni possibili. Lo stesso artista si identifica in queste figure, come attesta un busto del 1986 intitolato Io: in mezzo a esse, De Angelis continua dunque a condurre il suo ruolo di severo controllore dei ritmi e dei moduli che la sua mentalità progettuale vorrà mettere a sistema.


Pasquale Fameli

(Dal catalogo della mostra personale di Bruno De Angelis: 

FRAMMENTI DI SISTEMA 2018-2022 AUTOBIOGRAFIA PER IMMAGINI

Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna - Bologna - 2022)