Mario Cancelli

"IL POP MITICO E FAMILIARE DI BRUNO DE ANGELIS"

“Verso Persepoli” (1988), e “Grande Persepoli” (2018), due virtuosi assemblaggi con i loro tasselli disposti secondo un ritmo ascensionale, pare siano nati nello stesso periodo e non a trent’anni l’uno dall’altro: non si può non rilevare che De Angelis ha ripreso il discorso esattamente là dove l’aveva abbandonato. 
Infatti le ultime opere del reborn (all’arte) Bruno De Angelis, con misure spesso parietali, dilatano e moltiplicano il motivo delle già frequentate ziggurat dell’antica Babilonia. Sono opere pervase da una furia organizzatrice, rigorosa come gli orari ferroviari, che danno prova di eleganza architettonica e di audacia in un croma quasi industriale. L’esposizione di Marina di Ravenna offre l’occasione di una ricapitolazione dell’opera di De Angelis, che consente di rileggere le istanze che furono e sono le matrici della sua produzione. 
Anche la doppia titolazione dice di una rinnovata paternità di quelle opere, di una ri-presa in carico di esse, perfino divertita e giocosa. 
Si ha così modo di scoprire che i giovanili abbandoni gestuali dell’autore (“In principio”, 1971, ieri “Azzurro” e ancora prima“Senza titolo”, e “Io dentro il fuoco”, 1972, allora “Senza titolo”), mai propriamente ingenui, spesso lirici, quasi materici, si scontravano già, incaponiti e come impotenti, con forze che a tali abbandoni vietavano il corso. 
Forze che con malcelata astuzia andavano a trincerarsi in quell’idea di cornice che in realtà nulla inquadra, ma solo regola o addirittura chiude l’accesso alla pulsione, al moto appena inaugurato. 
È indubitabile che il giovane De Angelis si sia reso allora geometrico (non per niente più tardi avrebbe portato con un certo orgoglio il soprannome “De Angolis”), ma a ben guardare il gesto quasi action dei primissimi tempi non si è mai perso, si è piuttosto andato ad annidare con inarrestabile metamorfosi nella diagonale dei Persepoli, potente come un lapsus. 
Apprezzabili alcuni antichi esiti: “Senza titolo”, oggi “Old number one” (1971) mostra una superficie solida, una cera distesa e compatta dove la virtù percettiva è filtrata da stimoli pop, a dimostrazione che per Bruno l’opera abitava già il mondo. Vengono poi le astratte gigantomachie, raffinate proiezioni di singoli elementi (colonna sonora “Another brick in the wall” dei Pink Floyd), in un’oggettualizzazione già mitizzante del moto. 
Sono inquietanti geometrie frammentate, trascinate da quell’onnipotente e onnipresente diagonale (“Bagliori alle porte di Tannhäuser”, 1973, e “Fortezza di pietra”, 1973, allora “Senza titolo”). Opere che s’indirizzano alla semplificazione del nastro di Moebius, da cui si sa non è dato uscire; squisiti ma inesorabili codici di una reificata astrazione (“L’imbrunite tra il 6° e il 12° grado sotto l’orizzonte”, 1973, e “Samarcanda”, 1974, anch’essi allora “Senza titolo”). 
Il moto è scandito da calcolatissime tensioni ascensionali dalle infinite, quasi impercettibili variazioni, che presto saliranno i gradini di mille ziggurat. 
Tale moto avrà tra i suoi possibili esiti la teatralizzazione e la simbolizzazione delle spinte conflittuali di Eros e Thanatos, con la complicità del mito e della storia (“La seduzione”, 1984). 
E così quel teatro, abbandonato e ripreso, apre al quotidiano, in un’aperta confessione da cui emerge un pop domestico. 
Sempre più il mito si oggettiva esistenzialmente, trova correlati oggettivi: le sagome scolpite, “La morte di Aiace”, 2018, “Io”, 1986, vivono di un’ombra che muove la forma, sollevandosi pur gravata dal peso psichico della melanconia, contraddetto dal materiale leggerissimo. 
Ma in realtà più drammatico è l’outing dei vari frutti del filone babilonese, cioè le grandi superfici istoriate vissute come pareti domestiche: su quegli screen della compulsione, del godimento e della coazione, tra l’istante dell’arresto e quello del nuovo inizio, sono trascorse storia, vicende dell’io, insomma la cosiddetta vita (“Casa delle fondamenta del cielo e della terra – Particolare blu”, 2018, “Casa della pietra angolare”, 2019, “Casa della terra senza ritorno”, 2019). Il non rimuoverla, la vita, l’immergerla nella provocatoria semplicità di un pop che sa di far rima interna con Coop e rima esterna con drop, cioè con una goccia di soddisfazione, è la vittoria da registrare oggi. 
La soddisfazione è innanzitutto formale, vista l’energia e la liricità, si diceva, di questa reiterazione di elementi miniaturizzati che procedono inesorabili, piccoli templi di un più interminabile edificio sacro, ominidi di un’umanità da reinventare. 
Se “Io e lei”, 2019, toglie anche l’ultima lucina dall’etrusca memoria dei trapassati amanti, è “Après l’amour”, 2019, il capolavoro ironico su cui soffermarsi. 
Qui l’antico percettismo ottico si congiunge ormai esplicitamente al tessuto esistenziale: il parallelismo astratto che pervade e sembra congiungere nel medium metallico le due figure, viene contraddetto dai bordi taglienti del laminato. Motu proprio, il geometrismo ottico degli anni giovanili, la rigorosa percezione di forma e luce, si sono evoluti in ondulato di lamiera. 
A dimostrazione di quanto fosse falso e ingannevole il dilemma che allora fu indotto sul capo dell’artista tra arte pura e degradante pop. 
Anzi, non si può non riconoscere che una certa teatralizzazione (che si ritrova in artisti dalle analoghe istanze gestuali e oggettuali, come Frank Stella) testimoniata nella serie degli "Oggetti canditi" (1981/82), opere successivamente distrutte dall'autore, fosse uno degli esiti logici, poste quelle premesse. 
Arte e salute amano gli et ... et, detestano gli aut ... aut. 
Il gioco profittevole sarebbe stato allora lasciare spazio a quell’autonomo moto appena inaugurato, a quel “Das Ding” che fu allora inibito, e che oggi riprende anche grazie a nuovi incontri. 
La prova del nove di quanto il “pop mitico familiare” - che dona al lavoro di Bruno originale collocazione - racchiuda un tesoro formale e perciò di pensiero (in questo caso di condensazione inconscia e non di mera serialità), la forniscono gli “Studi grafici” preparatori, piantine in cui l’artista miniaturizza la realtà che andrà a riprodurre e a ingrandire. 
Per chi scrive è stato emozionante vederli appesi ai mobili di casa, mentre sul tavolo di lavoro dello studio nasceva uno dei Persepoli, nel mosaico delle tessere di cartone, apparentemente compatto come muraglia e in realtà così straordinariamente studiato e molteplice . 
Memorabili anche le preziose incisioni/disegni, come “I figli di Persepoli - 1” e “I figli di Persepoli - 2”, 2018, per quel chiarore che svela la tenue e ferrea trama degli implacati puntini. 
Miniaturizzare per ingrandire: c’è del metodo in queste versioni di De Angelis, si può dire con Amleto. 
Uno sguardo spregiudicato potrebbe vedere in tutto ciò un’apprezzabile critica alla fola dell’infinito romantico, sia psicologico che spaziale, verso il quale indirizziamo telescopi, sonde, messaggi in bottiglia, innamoramenti. 
Le misure matematiche dell’universo stanno invece in uno scontrino da bar, così come la nevrosi sta in un cartoncino di pochi centimetri. 
Ingrandire, perché? Non per andare oltre la cornice, come si è tentato con dripping e happenning, ma per far cadere la cornice, la cornice che chiude, rinserrandoli, giorni, tempi, cose, figli. 
Non un oltre, ma una nuova legge del soggetto potrà farla cadere, quella cornice, una legge che nomini l’atto, che in questo caso trova il nome di “organizzazione”, a volte virtù regale, a volte ostacolo opprimente.  

Mario Cancelli

(Dal catalogo della mostra personale di Bruno De Angelis:
“LUOGHI E FIGURE - IO VERSO PERSEPOLI”
Faro Arte, Marina di Ravenna, 2019)